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Il ruolo dei media nella mediazione dei conflitti

Media - Mediazione dei conflitti - Foto di Gerd Altmann da Pixabay - mark-1577991_1280

La realtà esiste di per sé? Oppure esiste in quanto percepita?

Sono domande che appartengono da sempre alla Storia della Filosofia. Sono però domande che entrano, di fatto, nel dibattito sul ruolo dei media nel raccontare quanto accade.

Alle allieve e agli allievi del Master in Comunicazione europea, Media e Giornalismo interculturale spiego sin da subito che una notizia non è la realtà. È un racconto su quanto è accaduto.

Questo significa che l’autrice o l’autore di un articolo scriverà, su un certo fatto, con contenuti, stile e tono di voce assai diverso da quello di un altro giornalista. È il bello del pluralismo della stampa.

Come raccontiamo i fatti, peraltro, non è meno importante di come i fatti in sé sono accaduti

La visione dei fatti che diamo, con il nostro raccontare, porta a leggerli, comprenderli e interpretarli in una certa maniera. Tant’è che potremmo trasformare un Eroe in uno Sconfitto; e il contrario.

Di come i media rappresentano, ad esempio, i conflitti scrivo – con Elena Guerra, giornalista e comunicatrice – nel capitolo che abbiamo messo a punto per il volume Manuale di negoziazione e mediazione, a cura di Neg2Med, il centro di negoziazione e mediazione dell’Università degli Studi di Verona.

Media e conflitti: come la narrazione influenza la percezione pubblica

Nella società contemporanea, i media – mass media, social media e personal media – non si limitano a trasmettere informazioni. Modellano la percezione collettiva dei conflitti, orientano interpretazioni e condizionano le relazioni sociali e politiche.

I mass media, con la loro struttura professionale, selezionano e confezionano i messaggi che arrivano al pubblico.

È un processo privo di interazione diretta, dove il destinatario può solo scegliere se continuare o interrompere la fruizione.

I social media hanno ribaltato questo schema: il pubblico è diventato creatore e curatore di contenuti, moltiplicando fonti e narrazioni, spesso prive di filtri etici e professionali.

Da parte loro, i personal media – chat, email, messaggi vocali – ibridano comunicazione privata e pubblica, diventando il primo terreno in cui un conflitto nasce o si amplifica.

Narrazione e percezione: il ruolo dei media

Ogni racconto mediatico è una scelta.

Il linguaggio, le immagini e le cornici interpretative (“frame”) contribuiscono a orientare l’audience.

Lo stesso evento può apparire come aggressione o legittima rivendicazione, cambiando in modo radicale la percezione pubblica.

Questo vale per guerre, tensioni politiche e conflitti sociali: le parole non sono neutre, sono parte del conflitto stesso.

I media possono assumere due ruoli opposti.

  • Amplificatori di ostilità: alimentano stereotipi, polarizzazione e diffidenza reciproca.

  • Facilitatori di dialogo: canalizzano la comunicazione, chiariscono interessi comuni, riducono la sfiducia e aprono spazi di espressione emotiva.

La loro influenza è massima quando il tema è lontano dall’esperienza diretta del pubblico. In questi casi, la semplificazione può aiutare a capire, ma rischia di distorcere la realtà e rinforzare pregiudizi.

Negli anni del terrorismo in Italia, l’impegno di giornalisti indipendenti – spesso pagato con la vita – contribuì a isolare la violenza politica e riaffermare i valori democratici.

Oggi, lo stesso principio vale per qualsiasi conflitto: un’informazione responsabile può prevenire scontri, dare voce ai cittadini e incoraggiare iniziative di pace.

Agenda, routine e frame

Tre elementi definiscono l’impatto narrativo dei media sulla pubblica opinione:

  1. Agenda setting – La scelta e la priorità degli argomenti determinano ciò che il pubblico considera importante

  2. Routine professionali – Fretta, stereotipi e mancanza di verifica compromettono la qualità dell’informazione

  3. Frame interpretativi – Le cornici cognitive influenzano ciò che vediamo e ciò che ignoriamo

Scegliere di raccontare “l’altro” in termini di bisogni, valori e complessità, invece che come minaccia, apre spazi di comprensione interculturale.

La responsabilità narrativa nell’era digitale

In un contesto in cui spazio, tempo e identità sono fluidi e accelerati, la responsabilità dei media cresce.

Raccontare un conflitto significa partecipare alla sua evoluzione: ciò che si sceglie di dire – e ciò che si decide di tacere – può avvicinare alla pace o cristallizzare l’ostilità.

Per comunicatori, giornalisti, giuristi, psicologi, educatori e cittadini consapevoli, questo implica un impegno preciso: usare il potere della narrazione non per dividere, ma per costruire ponti.

C’è una responsabilità, insomma, a livello del racconto delle storie, che ci tocca come professionisti e come cittadini e cittadine.

Nessuna storia è mai neutra. Attraverso i media – personal media, social e mass media – siamo nelle condizioni di mediare i conflitti, incanalandoli in una direzione che li renda produttivi di novità, anziché distruttivi.

Quello che conta è agire su di noi:

  • avere consapevolezza dei nostri pregiudizi,
  • ascoltare il nostro stato d’animo,
  • pensare a ciò che le nostre scelte produrranno

L’altro giorno volevo commentare l’azione di un politico locale, inchiodandolo alle sue responsabilità. Avevo tutte le ragioni, per farlo, sia come giornalista che come cittadino.

Dopo aver scritto il commento su un social network, mi sono fermato e mi sono detto: questo commento produrrà un effetto positivo? Porterà la pubblica amministrazione a migliorare la sua attività? Sarà di vantaggio alla cittadinanza?

La risposta mi venne di getto: no. Con quel commento avrei, attraverso i media, alimentato il conflitto, anziché gestirlo.

Bastano spesso poche piccole scelte per produrre – sul piano mediatico – effetti positivi, nel mediare i conflitti da cui siamo circondati.

Maurizio F. Corte

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