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Media e diversità. Quanto pesano le abitudini dei giornalisti

Giornalismo - Diversità culturale - Routine professionali - Photo Melpo-Tsiliaki-sbGITOEJMKM-Unsplash

Mi sono sempre chiesto come mai noi giornalisti non sappiamo raccontare in modo efficace la “diversità”.

Non la sappiamo raccontare soprattutto quando la diversità – sia essa culturale, sociale, personale – si presenta rapida e improvvisa, avviluppata in un fatto di cronaca.

Prendiamo l’omicidio di un padre, a Luino (provincia di Varese), una domenica di luglio 2025, da parte del figlio maggiore. È quello che un tempo sui giornali veniva subito titolato come parricidio.

Ebbene, il primo dato che emerge dai resonto dei media – dal primo lancio dell’agenzia Ansa alle cronache dei grandi quotidiani, ai servizi tv – è che il padre era adottivo. E che l’omicida è un figlio adottato.

Cosa c’entra lo specificare l’esperienza dell’adozione – che conosco bene, essendo un padre adottivo – con l’omicidio?

Forse l’essere un figlio adottato ti espone a uccidere con maggiore facilità tuo padre? Forse l’essere un padre adottivo oppure una madre adottiva ti rende un bersaglio per figli che sono adottati e, quindi, figli a metà?

Nel caso di Luino, si specifica addirittura che l’assassino era un figlio adottato “di origine straniera”. Adottato e pure extracomunitario: il massimo della diversità, a quanto pare, secondo i giornalisti.

Se proprio si voleva caricare di dettagli il pezzo giornalistico sull’assassinio, si potevano specificare anche il segno zodiacale dei protagonisti, il numero di scarpe che indossavano al momento del delitto e in quante stanze abitavano.

Immagino ti sia facile abbozzare un sorriso – pur nel dramma di un parricidio – nel sentirmi dire che segno zodiacale, numero di scarpe e stanze d’abitazione possono essere “notizie” utili a lettrici e lettori della cronaca nera.

C’è poco da sorridere, invece. Nei giornali del Nord Italia, negli Anni 50 e 60, specie a Torino, quando si scriveva di un fatto di cronaca nera che vededa coinvolte persone del Sud Italia, si arrivava a scrivere quanti figli aveva la tal persona. E in quante stanze d’appartamento vivevano.

Il risultato? Gli italiani emigrati dal Sud nascondevano il numero di figli quando chiedevano in affitto un appartamento a Torino, ad esempio.

Raccontare l'adozione - Linee Guida per Giornalisti e Scrittori

La difficoltà di giornalisti e sceneggiatori a raccontare la diversità

Il semiologo e scrittore Umberto Eco sosteneva un tempo che noi giornalisti siamo gli storici dell’istante. Spero che gli storici non si affidino, come del resto non fanno, ai soli giornali per scrivere la Storia.

Ho la certezza, invece, che adesso noi giornalisti ci crediamo gli psicologi dell’istante e i sociologi del contemporaneo. Altrimenti non si spiega come possiamo fare analisi all’istante: sia di tipo psicologico-sociale che di tipo sociologico.

Nel caso del delitto di Luino, a cui ho fatto prima richiamo, i cronisti hanno formulato questa ipotesi: il figlio omicida, nel commetere delitto, può essere stato in qualche modo influenzato dalla sua militanza politica: era un anarchico.

Qui abbiamo, addiruttura, una lettura da scienza della politica di un delitto che ha di sicuro ragioni lontane; e spiegazioni complesse.

Non solo. Si è fatto riferimento anche a una delusione amorosa, come se il perdere l’amore potesse renderci potenziali assassini.

Non se la passano meglio gli sceneggiatori – categoria a cui appartengo con la Writers Guild Italia – quando usano l’essere figlio adottato (o in affido) come “imperfezione” utile per il personaggio del serial killer o dello psicopatico di turno.

Facci caso. Un serial killer, un soggetto spietato, una donna sociopatica spesso hanno un passato di adozione. Oppure sono stati affidati in case famiglia e, comunque, hanno vissuto esperienze riconducibili all’essere figli “diversi”.

Perché i giornalisti non sanno raccontare il “diverso”?

Mi sono chiesto millanta volte – occupandomi di giornalismo interculturale – come mai noi giornalisti viviamo una curiosa contraddizione, come operatori dell’informazione.

Qual è la caratteristica principe di un giornalista? La risposta è facile: la curiosità. Se non sei curioso, è meglio che cambi mestiere.

Cosa insegnavano i vecchi capicronaca? Ad andare oltre il velo dell’apparenza. A scavare. A interrogare. A osservare. A non fermarsi alla soluzione comoda; e alla versione più semplice.

Possiamo dire che il Giornalismo (quello con la G maiuscola) ha molto in comune con la ricerca scientifica e con la Filosofia. Non è così profondo come la scienza e il filosofare, ma ha la stessa tensione, ha la stessa passione e ha lo stesso obiettivo: andare oltre il senso comune.

Di cosa vive, poi, il giornalismo? Delle novità, di ciò che di nuovo succede.

Il buon giornalismo, poi, cerca di capire le linee fondamentali e costanti su cui si regge la nostra vita in società.

A dircelo sono il giornalista Sergio Lepri, per molti anni direttore dell’Agenzia Ansa, e gli autori del libro The Elements of Journalism.

Nel caso del libro The Elements of Journalism, si parla del ruolo di “formazione” che interpreta il giornalismo. E di come il giornalismo sia una “cartografia dell’esistente”.

Il giornalismo è, insomma, la mappa utile per muoverci in una società maledettamente complessa.

Come mai, allora, i professionisti dell’informazione –  giornalisti e comunicatori – che vivono del nuovo, che sono sorretti dalla curiosità, che sono spinti dalla voglia di ricercare… inciampano nella diversità?

La diversità, voglio sottolinearlo, non è solo quella dello “straniero”. Non è solo quella di chi ha un diverso orientamento sessuale; oppure di chi è portatore di una qualche disabilità.

La diversità è anche quella tra giornalisti e social media manager. Quella fra tecnici e creativi. Tra donne e uomini. Tra status sociale e condizioni economiche diversi.

La diversità è anche quella tra me, cronista nato e cresciuto in provincia, e il mio amico giornalista che nuota nella Milano degli scandali.

Come mai i giornalisti – gli storici dell’istante, per dirla con Umberto Eco – non sanno raccontare la diversità? E, soprattutto, spesso non si impegnano per capirla, studiarla, interpretarla?

La risposta sta in due elementi importanti, di cui parliamo a fondo anche nel Master in Comunicazione europea, Media e Giornalismo Interculturale, organizzato dal Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona e diretto dal professor Agostino Portera, ordinario di Pedagogia.

Gli elementi importanti, che ci danno ragione della difficoltà di giornalisti e giornaliste a misurarsi con la diversità, sono due:

  • la carenza di formazione professionale e interculturale
  • il peso delle routine professionali che, assunte in modo acritico, condizionano il nostro modo di fare giornalismo

Ciò che dico del giornalismo, peraltro, vale anche per chi fa comunicazione multimediale o gestisce i social. Vale per chi scrive sceneggiature di film, serie o programmi tv. Vale per chi si occupa di marketing.

È su questi due punti che si gioca il futuro del giornalismo italiano: la formazione interculturale e le routine professionali. Ovvero, due argomenti su cui è fondamentale riflettere.

Maurizio F. Corte

La lezione di giornalismo di Sergio Lepri

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