Il “circo mediatico” è al centro del dibattito per il caso di Garlasco, con le nuove indagini – partite a marzo 2015 – sull’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto in provincia di Pavia, il 13 agosto del 2007.
Per quel delitto, va ricordato, nel dicembre del 2015 è stato condannato il fidanzato della vittima, Alberto Stasi, a 16 anni di carcere. Ora Stasi sta godendo del regime di semilibertà, in attesa di finire di scontare la pena.
Il “circo mediatico” che non è “circo”
Quando si utilizza l’espressione circo mediatico, occorre dirlo, lo si fa in maniera paradossale.
Il paradosso nasce da due elementi:
- di circo mediatico si parla sui media, ovvero i media tematizzano sé stessi, alimentando quindi il presunto comportamento circense riferito ai mezzi di comunicazione di massa e social;
 - senza circo mediatico avremmo una comunicazione messa a tacere, dove nulla trapela se non la verità ufficiale, come accadeva con il fascismo in Italia e come accade con le dittature
 
C’è poi un errore di fondo – un fraintendimento della peggior specie – quando si parla di “circo”, riferendolo ai media. Come se il circo fosse uno spettacolo di bassissimo livello, pari a quello dei media che fanno gossip sul crimine.
Nel cuore del circo, infatti, c’è la ricerca dell’eccellenza e della sfida ai limiti umani.
Ogni artista circense, che sia un acrobata, un giocoliere, un equilibrista o un trapezista, dedica anni alla perfezione del proprio mestiere. Ciò che vedi non è solo abilità, è il risultato di incredibile disciplina, forza, agilità e coraggio.
Il pubblico viene trasportato in un regno dove le leggi della fisica sembrano sospese, dove l’impossibile diventa realtà.
Ma non è solo una dimostrazione di forza fisica. Il circo è anche arte.
L’espressione corporea, la grazia, la sincronizzazione e la narrazione attraverso il movimento sono elementi fondamentali.
Ogni numero è una performance studiata, spesso accompagnata da musica, luci e costumi, che crea un’atmosfera unica e coinvolgente.
Non mi pare che il peggio del racconto mediatico – che spesso si esprime nel trattare i casi criminali e giudiziari – sia un’arte piuttosto che un lavoro sulla perfezione, la disciplina e l’impegno rigoroso per la verità del risultato.
Il racconto mediatico tra emozioni e dati
Il delitto di Garlasco – è bene ricordarlo – è tornato a occupare le prime pagine di giornali, radio e tv nella primavera del 2025.
Questa volta la vera protagonista, tuttavia, non è solo la ricerca della verità giudiziaria, quanto la metamorfosi radicale del racconto mediatico.
Come un prisma che scompone la luce bianca in uno spettro di colori, la riapertura delle indagini sull’omicidio di Chiara Poggi ha rifratto la realtà processuale in infinite narrazioni parallele, ciascuna con la propria logica e i propri protagonisti.
Se nel 2007 la cronaca si nutriva di dettagli umani e circostanziali – la bicicletta nera, la scena del delitto con il corpo senza vita di Chiara Poggi, la personalità di Alberto Stasi – oggi assistiamo a quella che gli esperti definiscono “ipertrofia tecnico-investigativa”.
L’impronta digitale di Roberto Sempio, rilevata con una nuova tecnica, è diventata il nuovo epicentro narrativo.
L’asse della comunicazione si è così spostato verso una dimensione all’apparenza più scientifica e oggettiva.
Testate televisive come Sky TG24 e Rai hanno abbracciato questa svolta forense con interesse quasi tecnologico: mappe elaborate, ricostruzioni digitali della scena del crimine, analisi del Dna presentate come verdetti inappellabili.
È come se il giornalismo avesse indossato un camice bianco, acquisendo un’aura di scientificità che promette di dissipare le nebbie dell’incertezza processuale.
Il mondo dei blog e il mondo degli infiniti canali di YouTube si sono poi buttati sulla vicenda di Garlasco.
Hanno fiutato l’interesse della pubblica opinione, la sua voglia di notizie e analisi, e siamo arrivati a un’ipertrofia informativa che produce di per sé errori, fraintendimenti, ipotesi fantasiose.
Tuttavia, questa apparente oggettivazione del racconto – con presunte certezze scientifiche – nasconde insidie profonde.
L’anticipazione mediatica di perizie ancora in corso – pratica diventata routine per emittenti come La7 e Tg1 – viola in modo continuativo il principio della presunzione di innocenza.
Il condizionale grammaticale (“sarebbe stata rinvenuta”) diventa un sottile escamotage linguistico, che non riesce a neutralizzare l’impatto suggestivo di notizie presentate – di volta in volta – come rivelazioni definitive.
È tanta la sete di certezze scientifiche, da parte del pubblico, che le suggestioni e le fantasie sono state rivestite da scienza per risultare più appetibili.
La gerarchia delle notizie tra social e giornali
Una delle trasformazioni più significative riguarda, poi, il crollo della gerarchia delle fonti informative.
Un tempo vi erano i giornali e i telegiornali a dettare l’agenda delle informazioni, la famosa agenda setting.
Adesso i social media giocano in anticipo rispetto ai media tradizionali, ribaltando la tradizionale catena dell’informazione.
È come se i cittadini avessero ottenuto l’accesso diretto agli archivi giudiziari, bypassando i filtri editoriali che hanno, in passato, mediato tra fatti e opinione pubblica.
Questo fenomeno ha generato un’ibridazione mediatica senza precedenti: la difesa di Sempio utilizza Instagram per diffondere infografiche giuridiche e messaggi minacciosi (“guerra dura senza paura”), trasformando i social network in una vera e propria arena processuale parallela.
Non si tratta più di semplice comunicazione, ma di strategia giudiziaria condotta attraverso piattaforme digitali, giornali e televisioni.
Dal sensazionalismo alla tecnocrazia
L’analisi della copertura mediatica del caso Garlasco rivela tre fasi distinte, ciascuna con le proprie caratteristiche narrative e retoriche.
Vediamo le tra fasi in ordine cronologico.
La prima fase – quella acuta – della narrazione mediatica sul caso di Garlasco (dal 2007 al 2015) è stata dominata dalla personalizzazione del colpevole.
I media mainstream hanno costruito il “personaggio Stasi” attraverso una drammatizzazione probatoria che elevava elementi circostanziali a prove definitive.
Si pensi, ad esempio, ai sospetti su immagini pedopornografiche – mai trovate – sul computer di Alberto Stasi. Piuttosto che la storia, infondata, sul cambio dei pedali di una bicicletta da danno del fidanzato di Chiara Poggi.
La narrazione seguiva una struttura binaria – innocente contro mostro – alimentata da metafore belliche che trasformavano l’inchiesta in una “caccia al killer”.
La seconda fase – quella revisionista (dal 2016 al 2024) – ha visto emergere lo scetticismo istituzionale.
Podcast investigativi e blog specializzati hanno iniziato a decostruire le certezze processuali, evidenziando errori procedurali e incongruenze.
Gli hashtag sui vari aspetti del caso di Garlasco hanno generato milioni di interazioni, creando contronarrazioni social spesso basate su indiscrezioni giudiziari non verificati.
La terza fase – quella forense attuale (iniziatisi a primavera 2025) – rappresenta il culmine di questa evoluzione:
- dallo storytelling emotivo al modello data-driven,
 - dalle fonti gerarchizzate alla frammentazione informativa,
 - dal marginalismo social alla centralità strategica delle piattaforme digitali dei social network
 
I social media: amplificatori o fonte di distorsioni
I social network non si limitano a diffondere informazioni sul caso Garlasco; le plasmano in modo attivo, creandone di nuove attraverso meccanismi di amplificazione e distorsione.
I messaggi vocali di Paola Cappa, cugina della vittima, pur non apportando prove concrete, hanno alimentato un clima di sfiducia generalizzata verso inquirenti e testimoni.
E hanno dimostrato come l’emotività digitale possa influenzare la percezione dei fatti processuali.
La polarizzazione hashtag ha creato echo chambers che rafforzano convinzioni preesistenti. E ignorano in modo deliberato la complessità tecnica e la sentenza definitiva di condanna per Stasi.
È un fenomeno che ricorda la dinamica dei tifo calcistico applicata alla giustizia: fede cieca nei propri “beniamini” processuali e demonizzazione sistematica delle tesi avversarie.
Il rischio della giustizia-spettacolo
Forse l’aspetto più inquietante di questa evoluzione è la sovrapposizione crescente tra narrazione mediatica e realtà giudiziaria.
I forum online ospitano narrazioni alternative prive di verifica che si sovrappongono a quella processuale, creando una credibilità sociale alternativa basata su legami emotivi piuttosto che sul rigore giuridico.
Questa dinamica genera quello che potremmo definire un “effetto tribunale televisivo”: il pubblico, abituato a programmi dove cause legali vengono messe in scena da attori, fatica a distinguere tra spettacolo e realtà processuale autentica.
La mancanza di educazione ai media contribuisce a questo cortocircuito informativo, alimentando la diffusione di fake news e la polarizzazione dell’opinione pubblica.
Criticità: frammentazione e perdita di contesto
Nonostante l’apparente sofisticazione tecnica della copertura attuale dei media, persistono criticità strutturali significative.
La frammentazione narrativa impedisce una comprensione completa del caso, a 360 gradi: solo una parte degli articoli e dei servizi tv collega le nuove indagini alle problematiche storiche del processo 2007. E alla condanna di Alberto Stasi, nel dicembre del 2015.
L’iper-specializzazione dei contenuti tecnici riduce la comprensione pubblica.
Termini come “incidente probatorio” o “testimone assistito” vengono tradotti in metafore fuorvianti (“faccia a faccia col killer”) che banalizzano la complessità processuale.
È come spiegare la fisica quantistica attraverso analogie casalinghe: l’intento divulgativo finisce per distorcere la sostanza scientifica.
L’uso strumentale dei media: i mass media e i social
Vi è poi una novità nel ruolo dei media, in questa fase con le nuove indagini sull’omicidio di Chiara Poggi.
Questa novità può consentirci di parlare davvero di circo mediatico, se il circo viene inteso per quello che è: frutto di azione disciplinata, impegno per un certo risultato e arte per incantare il pubblico.
Oltre ai comportamenti scomposti – come sempre accade – di alcuni media, sia di massa che social, tipici nei casi giudiziari, ci sono altri comportamenti che merita di evidenziare.
Si tratta di comportamenti lineari, studiati in modo strategico e decisi a tavolino. Niente di scomposto e ingenuo, niente delle azioni dello stupido gossip, niente di improvvisato.
Abbiamo alcuni media che si pogono a supporto delle nuove indagini, vuoi in modo concordato con i magistrati inquirenti; e vuoi in modo autonomo ma coincidente con gli interessi di chi fa l’investigazione.
Abbiamo poi altri media che si pongono, invece, in netto contrasto rispetto alla Procura di Pavia e ai carabinieri milanesi, protagonisti della nuova stagione investigativa.
Quest’ultimo dato – media ostili alla pubblica accusa e agli investigatori – è una novità. Ed è il segnale di alcuni interessi che si sono mossi attorno e dietro la vicenda di Chiara Poggi.
Vi sono poi i social media, con i network di vario genere – da YouTube a Telegram, da Facebook a Twitter, a Instagram – dove il dibattito è meno prevedibile. E anche meno controllabile.
Anche qui abbiamo, tuttavia, una novità: la difesa di un sospettato, Andrea Sempio, arriva a pubblicare su Instragram una “dichiarazione di guerra” contro gli investigatori e i magistrati.
I legali di Sempio pubblicano la frase “guerra dura senza paura”. La frase richiama un noto slogan del 1968, quando il movimento extraparlamentare di sinistra, Lotta Continua, urlava Lotta dura senza paura.
Parlare di “guerra dura senza paura” è quanto meno di cattivo gusto.
Siamo in una fase storica dove centinaia di migliaia di uomini e donne sono morti in Ucraina e in Russia, a seguito dell’invasione di Mosca del febbraio 2022. E viviamo una fase in cui decine di migliaia di palestinesi (spesso donne e bambini) sono sterminati dall’esercito di Israele.
La frase “guerra dura senza paura” ci racconta, poi, dell’altro.
Ci racconta un cambio di stile in una parte dell’avvocatura: la fine di un comportamento di solito composto degli avvocati, ovvero di coloro che sono chiamati a difendere noi cittadini nel corso delle indagini.
Ci racconta una dichiarazione di guerra a un’istituzione – la Procura della Repubblica – che fa parte dello Stato.
Pur con i loro (a volte considerevoli) limiti, gli errori e le parzialità, va ricordato che i procuratori della Repubblica sono gli “avvocati difensori” dello Stato contro il crimine.
Quegli stessi procuratori, va poi rilevato, non hanno – almeno non in chiaro e in via diretta – l’accesso ai social media; e le possibilità di espressione sui social che hanno i privati e gli avvocati.
Fatto questo quadro, con il ritorno della vicenda di Garlasco agli onori della cronaca, assistiamo a un uso dei media di massa e dei social media che va ben oltre il cosiddetto circo mediatico.
Assistiamo a una battaglia mediatica – una battaglia per l’agenda game ben conosciuta dagli studiosi dei media – che va oltre le normali routine dei giornali. E va oltre le solite dinamiche polarizzanti dei social media.
Sarà interessante vedere se le ombre che si agitano dentro e dietro i media – sia quelli di massa che i social media – corrisponderanno, poi, ai soggetti che si muoveranno sulla scena processuale.
Etica e informazione
Il caso Garlasco, aggiornato al 2025, rappresenta un banco di prova cruciale per il giornalismo giudiziario.
La sfida non consiste nell’abbandonare l’innovazione tecnologica, oppure nell’ignorare il potere comunicativo dei social media.
Si tratta piuttosto nel trovare un equilibrio sostenibile tra rigore informativo e coinvolgimento del pubblico.
Servono protocolli deontologici che tengano conto della velocità di diffusione delle informazioni online, della frammentazione delle fonti e dell’influenza crescente dell’opinione pubblica digitale sui processi decisionali istituzionali.
Il rischio, altrimenti, è di assistere alla definitiva trasformazione della giustizia in uno spettacolo permanente.
Nello spettacolo dei media, la verità processuale diventa solo una delle tante narrazioni possibili, non per questo la più credibile agli occhi del pubblico.
La vera lezione del caso Garlasco potrebbe essere questa: nell’era dell’informazione digitale, la responsabilità di distinguere tra giustizia e spettacolo non spetta solo ai media professionali.
La distinzione tra spettacolo e giustizia, invece, diventa un compito collettivo che richiede educazione ai media, consapevolezza critica e una rinnovata fiducia nelle istituzioni.
Non solo. C’è anche il problema dell’uso dei media da parte di chi fa investigazione e da parte di chi difende gli accusati.
È un utilizzo strumentale dei media – a volte visibile, spesso nascosto – che c’è sempre stato. Ma che nel caso di Garlasco 2025 assume contorni di particolare interesse, in quanto collegati all’esercizio dei diritti democratici di tutti noi cittadini e cittadine.
Il richiamo all’etica del giornalimo e l’importanza di una media education sono di per sé evidenti.
Solo così potremo evitare che il prisma mediatico continui a frantumare la luce della verità in riflessi distorcenti e irriconoscibili.
A perderci non sono solo i media stessi, e chi vi lavora. A perderci sono soprattutto i cittadini, che rischiano di ritrovarsi con un sistema mediatico senza autorevolezza; e con istituzioni poco credibili.
Maurizio F. Corte
Garlasco, i media e il giornalismo investigativo
Fabrizio Corona e lo speciale su Garlasco
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