«Preferisco fare una foto, che essere una foto». Lee Miller è bella e lo sa. Ma non vuole essere solo un manichino biondo su cui appendere vestiti Chanel.
Lee vuole osservare il mondo e mostrarlo alle fedeli lettrici della rivista di moda più iconica della storia: Vogue.
E non solo quello bello e patinato a cui le donne americane sono abituate. Ma anche quello fangoso e crudele della vecchia Europa, sotto le bombe della Seconda Guerra Mondiale.
Prima di arrivare al fronte, però, il suo volto striscia davanti le macchine dei più grandi fotografi dell’epoca, rivelando tratti iconici e un magnetismo ipnotico. Fino a diventare musa del surrealismo francese.
Dietro e davanti l’obiettivo, Miller infrange così le barriere di genere del foto-giornalismo, documentando senza filtri uno dei periodi più oscuri della storia.
La liberazione di Parigi, i bombardamenti su Londra, l’incontro tra esercito statunitense e Armata Rossa. Lee Miller è perfino l’unica donna a fotografare i campi di concentramento nazisti.
A oltre un secolo dalla nascita, la sua storia rimane uno sgargiante manifesto di ribellione contro le convenzioni sociali. Ma, soprattutto, una testimonianza del potere della fotografia nel svelare e archiviare la storia.
Oggi la sua vita, a tratti dimenticata, rivive anche nel film biografico Lee, diretto da Ellen Kuras (Le regole del caos, Se mi lasci ti cancello), con protagonista Kate Winslet.
Un importante documento per ricordare una coraggiosa donna del giornalismo.
La vera storia di Lee Miller
Nata a Poughkeepsie (New York) il 23 aprile 1907, Elizabeth Lee Miller attraversa il secolo vivendo entrambi i lati dell’obiettivo fotografico: prima come volto di Vogue, poi come testimone oculare della Seconda Guerra Mondiale.
Miller inizia la sua carriera da modella già a 19 anni, grazie ad un incontro fortuito con contorni quasi mitologici, o forse orchestrati.
Nel 1926, viene infatti salvata da Condé Nast, mentre rischia di essere investita a Manhattan: l’editore di The New Yorker, Vogue e Vanity Fair in persona.
Folgorato dal suo magnetismo, Nast le offre quindi un contratto come modella, trasformandola in uno dei volti più riconoscibili della moda dell’epoca.
Ben presto però le cose cambiano.
L’inquietudine creativa di Miller la spinge infatti a esplorare l’altro lato della lente. In un’epoca in cui le donne possono permettersi pochi rischi, lei vuole diventare una fotoreporter.
Nel 1929, la donna lascia quindi tutto per Parigi. Qui, tra i vivaci salotti artistici, incontra il pittore surrealista Man Ray, che l’aiuta ad affermarsi come fotografa.
Il periodo parigino si rivela alla fine vitale per la sua carriera.
Il surrealismo rimarrà infatti una costante nella visione artistica dell’ex modella americana, sfumando i contorni degli scatti tra sogno e realtà.
LA SVOLTA: FOTOREPORTER DI GUERRA
Ignorando le pressioni familiari, nel 1939 Lee Miller diventa fotoreporter di guerra per Vogue: rivista patinata fino ad allora associata solo a moda e glamour.
In questo ruolo, la donna infrange le convenzioni di genere e diventa una delle poche corrispondenti della Seconda Guerra Mondiale.
Miller riesce così ad ottenere incarichi e ruoli prima impensabili, come:
- il riconoscimento a corrispondente di guerra per l’editore Condé Nast dall’esercito statunitense;
- l’associazione al London War Correspondents Corp, tra il 1939 e il 1945;
- una collaborazione con il fotografo David Scherman per Life – rivista che per decenni mostra ai suoi lettori ogni angolo del mondo.
Alla fine la sua redazione rimane sconvolta. I suoi scatti sono un pugno nello stomaco: «esplosioni nel cielo, fiamme alte come grattacieli» e cadaveri abbandonati tra le macerie.
Lee Miller documenta la cruda realtà della guerra, trasformandola in un incubo artistico.
La sua firma è infatti inconfondibile. Attraverso la frammentazione surrealista ritaglia «inquadrature insolite che prediligono i particolari piuttosto che la visione d’insieme».
Ogni fotografia rivela così la sua capacità di estrarre frammenti di verità dal caos, creando un linguaggio visivo unico per gli anni ’40.
Ciò nonostante, una volta arrivate in patria, le sue immagini vengono spesso sequestrate dalla censura, rimanendo chiuse nei cassetti per anni. Faranno questa fine alcuni scatti su un’arma all’epoca ancora segreta: il napalm.
UNO SGUARDO ONIRICO SUGLI ORRORI DELLA GUERRA
Sono tuttavia le foto scattate nella primavera del 1945 a cambiare il mondo per sempre, prendendo a schiaffi anime e corpi. Senza distinzioni.
Con in mano la sua Rolleiflex, Miller è tra i pochi fotografi – e l’unica donna – a riprendere la liberazione dei campi di concentramento di Buchenwald e Dachau.
Prigionieri nudi, forni crematori, piramidi di cadaveri: queste immagini sono documenti preziosi, che incidono su pellicola uno degli episodi più raccapriccianti della storia umana.
Lee è scioccata. E quando invia le immagini alla sua redazione, allega una frase con nove parole potenti: «Vi prego di credere che tutto questo è vero».
LA VASCA DEL FÜHRER: LA FOTO PIÙ FAMOSA DI LEE MILLER
Monaco di Baviera, Germania. Sono i giorni della liberazione dal nazismo quando l’esercito americano (179° Reggimento – 45° Divisione) scopre uno degli appartamenti di Hitler.
Lee Miller e il fotografo David E. Scherman sono tra i primi a entrare al numero 16 di Prinzregentenplatz: un lussuoso palazzo con otto stanze.
Muovendosi con cautela, attraversano i saloni decorati con svastiche dorate, fino a raggiungere il bagno del Führer. Dentro quelle quattro mura, il candore abbagliante delle piastrelle provoca a Miller un’improvvisa fitta allo stomaco.
In un gesto catartico, la donna prende una decisione inaspettata: decide di farsi fotografare dal collega mentre si ripulisce simbolicamente dal dolore. Una sensazione che l’ha soffocata per troppo tempo.
Prima di mettersi in posa, però, la fotografa posiziona tutto per creare «un’inquadratura curata nei minimi dettagli e simmetrie» (Finestra sull’arte). Scherman poi scatta.
Il risultato è un’immagine iconica: al centro la vasca da bagno, Miller nuda al suo interno, a sinistra il ritratto di Hitler e, sulla destra, una piccola statua della dea Venere.
Ma un dettaglio spezza la perfezione.
Anche se la fotografia è in bianco e nero, emerge infatti un’ombra più scura: una macchia di fango. Quella terra proviene da Dachau: è la polvere di un campo di sterminio, portata dentro la casa del dittatore, proprio sul suo tappetino da bagno.
È il 30 aprile 1945: nelle stesse ore, Adolf Hitler si sta togliendo la vita.
L’ADDIO ALLA FOTOGRAFIA E IL PESO DEL TRAUMA
Dopo la guerra, Miller si allontana dalla fotografia poco alla volta.
Pur continuando a collaborare con Vogue, le atrocità vissute in prima linea lasciano infatti cicatrici troppo profonde: il disturbo post-traumatico la perseguita, insieme a depressione e alcolismo.
Dopo il matrimonio con il pittore Roland Penrose, la sua identità pubblica quindi si trasforma: da fotoreporter diventa “Lady Penrose”, trovando rifugio nella cucina e nella vita domestica.
Alla fine, Lee Miller si spegne nel 1977 all’età di 70 anni a Farley Farm (Regno Unito), tormentata dai fantasmi della guerra.
LA FOTOGRAFIA: ARMA DEL GIORNALISMO
«Che si abbia il massimo della documentazione possibile, che siano registrazioni filmate, fotografie, testimonianze, perché arriverà un giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto questo non è mai successo».
Queste parole del Generale Eisenhower trovano in Lee Miller un’attrice instancabile.
Il suo contributo al giornalismo non si limita infatti all’estetica delle immagini: le fotografie della donna sono atti di denuncia, strumenti di verità, documenti incancellabili per la memoria collettiva.
Anche se dopo la guerra il suo lavoro si è perso nei libri di storia, oggi il suo archivio rimane quindi una prova preziosa del potere della fotografia come strumento di verità.
RISCRIVERE LE REGOLE DEL GIOCO
Presente nei luoghi più devastanti del conflitto, Miller ha ridefinito il ruolo delle donne nel giornalismo di guerra, dimostrando che potevano eccellere anche in un campo considerato maschile.
Per farlo, la fotografa americana ha dovuto però conquistarsi uno spazio in un mondo che non la voleva. Come farà qualche decennio dopo anche Oriana Fallaci.
Miller ha infatti sfidato divieti, come quello che impediva alle fotoreporter di avvicinarsi troppo al fronte, finendo persino sotto arresto.
Ha inoltre rischiato la vita in prima linea, pagando alla fine un prezzo altissimo, come testimoniano i suoi ultimi anni.
Tuttavia le sue trasgressioni non sono state solo personali, ma anche politiche.
In un’epoca in cui le donne erano confinate ai margini della vita sociale e culturale, Lee Miller ha imposto il loro diritto a raccontare e interpretare la storia. Un’eredità che continua a ispirare molte giovani reporter.
Anna Ceroni
“Lee”: il trailer del film sulla fotoreporter Lee Miller
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