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Come abbattere i pregiudizi: LGBTQIA+ in azienda

Stereotipi e pregiudizi su LGBTQIA+ -Foto di Alessandro Alle da Pixabay - lovers 7258609_1280

 

Il tema LGBTQIA+ mette in campo l’argomento della differenza.

C’è chi vive la differenza, chi la riconosce e la valorizza, chi si fa alleato per eliminare il disagio e con la sua mediazione educa chi è meno sensibile.

Certo è che ognuno di noi può essere leader nel cambiamento. Attraverso le azioni e il linguaggio, ciascuno di noi può infatti contribuire a diffondere una cultura del rispetto verso l’altro.

Dall’ignoranza si può guarire, l’importante è avviare il processo.

Ci sono cambiamenti sociali veloci. Dieci anni fa non eravamo pronti per parlare in modo aperto di LGBTQIA+.

La sigla, all’inizio LGBT, si allunga sempre più (lesbiche/gay/bisessuali/trans/queer/intersessuali/asessuali) e mantiene quella “+” che apre ad un mondo ancora in evoluzione.

Così si impara che ciascuno di noi può essere identificato in base a una serie di elementi:

  • la biologia (quello che identifica il sesso: femmina/intersessuale/maschio),
  • l’identità di genere (quello che si vede all’esterno: donna/genderqueer/uomo),
  • l’orientamento sessuale (chi mi piace: etero/bisex/omesex),
  • l’espressione di genere (come mi esprimo: femminile/androgino/maschile)

Nonostante il cambio in atto, ancora oggi accade che qualcuno preferisca la sua zona di comfort al confronto, perché sente che l’ambiente esterno non è pronto a sentire la sua storia oppure perché crede, in base alla sua fallace convinzione, che il gruppo non sia accogliente.

Ma se non esco dalla zona di comfort, una sorta di armadio protettivo, non potrò mai saperlo.

Come creare, dunque, sicurezza per queste persone piene di paura di manifestarsi? Attraverso la cultura e, in rafforzo, gli aspetti normativi.

Come si crea una cultura della protezione

La cultura si crea con la parola. La parola racconta le storie di vita. Se non si comincia a parlarne è difficile far capire le esigenze e i timori di chi si sente fragile; come pure diventa difficile dare una risposta efficace per il riconoscimento e l’integrazione in azienda.

Le storie invitano all’ascolto. Attenzione, però, ascolto attivo, senza diventare troppo invadenti e senza minimizzare l’esperienza altrui.

Qui gli equilibri sono delicati e dipendono dalla persona che si ha davanti che potrebbe essere estroversa oppure protettiva dei suoi spazi.

Non esiste un comportamento univoco. Si va per tentativi, si fa del proprio meglio. La buona fede, di solito, si manifesta chiara.

Le parole siamo noi, come ci muoviamo nel mondo. Anche una semplice battuta è un biglietto da visita della persona che ho davanti. Una battuta non è mai innocua se ferisce qualcuno.

Allargando il campo, non esistono solo le persone LGBTQIA+, ma anche i loro parenti, le madri, i padri, i fratelli e gli amici, che possono risentire di certe esternazioni scortesi.

Magari, a caldo, non è sempre facile contrapporsi al “burlone” irrispettoso di turno, ma a freddo è possibile portare la cultura del rispetto partendo proprio da quell’episodio.

Infatti, lo step finale di questa semina è comprendere/far comprendere che tutto ciò porta all’intersezionalità che significa non catalogare le persone a blocchi, ma farle interagire in una comunità (in questo caso l’azienda) in cui ognuno è quello che è, senza marchi o stigma.

Le norme e le battaglie civili

Gli aspetti normativi sono in evoluzione. Appena otto anni fa sono state riconosciute le Unioni Civili anche per le coppie dello stesso sesso. 

Ci sono poi barriere quali la fede, la cultura dominante e l’ignoranza, nel senso proprio di non conoscere, che creano preconcetti su questa o altra categoria. La battaglia di oggi sfocerà in nuovi role model in futuro.

Chi avrebbe pensato che dopo Rosa Parks, la donna nera che negli anni cinquanta in Usa si è rifiutata di dare il posto in autobus ad un bianco, avrebbe poi permesso ad un uomo nero di diventare presidente degli Usa nel 2012?

Le battaglie civili sono anche per il riconoscimento della genitorialità delle coppie omosessuali attraverso la step child adoption (come avviene in Italia). Oppure un riconoscimento pieno dell’adozione alle coppie gay/lesbiche come avviene in altri stati.

Si tratta di un tema molto delicato perché qui c’è in ballo il supremo benessere psicofisico del minore, che non riguarda solo la capacità genitoriale della coppia, ma anche il contesto sociale e culturale dell’ambiente di riferimento in cui quel bambino vive.

È mia opinione che, in una società ancora da modellare, non si possano caricare su bambini già fragili le battaglie civili dei potenziali genitori.

In quest’ottica, nell’interesse del minore, l’adozione alle coppie gay andrà semmai formulata come atto finale di un percorso già riconosciuto dalla società civile alle comunità LGBTQIA+.

Prima andrebbero approfondite ricerche sugli effetti dei ruoli padre/padre e madre/madre sul minore, che spesso proviene da diversa cultura, argomento finora poco indagato o con campioni poco rappresentativi.

Uscire dalla zona di comfort: il ruolo dell’alleato

La comfort zone è un ambito in cui ci sentiamo a nostro agio, vuoi perché la conosciamo, perché non esistono contrapposizioni o colpi di scena.

La persona, in questo stato di pace costante, si sente in assenza di ansia e non percepisce rischi.

Quando capita di andare oltre la zona di comfort, ci sentiamo vulnerabili e soggetti ad un alto grado di rischio, perché usciamo dall’area sicura.

Chiameremo “interessato” la persona che vive una situazione di disagio e “alleato” chi lo supporta nel superamento dello stress.

Cos’è, dunque, la molla che porta gli interessati ad uscire dalla zona di comfort? Per gli interessati è la necessità di superare lo stillicidio del quotidiano, intendendo un’esistenza poco autentica, dove domina la paura del rifiuto e la doppia identità.

È inoltre, il desiderio di togliere la maschera sul lavoro dove trascorriamo la maggior parte dei giorni. Se non ti esprimi, rimani incompleto; e ciò è invalidante, sia sotto un profilo personale, sia professionale.

Sorgono pensieri del tipo: io qui non ci posso stare, non posso resistere, mi licenzio. 

È troppo faticoso camminare sempre contro vento e sentirsi fuori contesto. Così, o si trova la forza dentro di sé per aprirsi o si cerca un alleato.

A volte il coming out è più semplice di quanto ci si aspetti, i colleghi accolgono la notizia con naturalezza. Cosa si può fare quindi di meglio?

Secondo alcune testimonianze sarebbe auspicabile che l’ascolto fosse circolare: io-tu, tu-io, noi.

Si avrà un risultato efficace quando da questo tipo di comunicazione si arriverà all’esaltazione dei valori di ciascuno, indipendentemente da orientamento sessuale, età o etnia, in quell’ottica di intersezionalità di cui si parlava sopra.

L’uscita dalla zona di comfort da parte dell’alleato si esprime in un supporto diretto o indiretto al collega.

L’alleato molto spesso è stato a contatto con conoscenti o amici che vivono gli stessi malesseri e conflitti, esperienza diretta che gli ha permesso di superare la diffidenza iniziale.

La vicinanza e la vita quotidiana porta a capire che siamo tutti persone. Ma anche chi non ha queste esperienze dirette può andare oltre le apparenze e convinzioni per entrare nel mondo dell’altro e agire.

Basta ricordare la citazione attribuita a Edmund Burke (1729 – 1797), politico, filosofo e scrittore britannico, di origine irlandese: “Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione”.

Strumenti per la costruzione di un dialogo intersezionale

Concludo indicando alcuni tra i possibili strumenti che aiuterebbero a creare la comunicazione circolare:

  • la comunicazione interna, intesa come cultura aziendale, cioè il cosa stiamo facendo per migliorare il clima tra le persone;
  • la comunicazione esterna su ciò che abbiamo fatto per trasmettere a che punto siamo del nostro cammino ed evoluzione.

Nella comunicazione interna c’è la formazione, nell’esterna il sostegno/la partecipazione ad eventi che parlano di tali tematiche.

ItaliaAdozioni e il suo percorso

Da qualche anno ItaliaAdozioni, associazione di promozione sociale che dal 2012 si occupa di diffondere una corretta cultura dell’adozione e dell’affido, si è posta lo stesso problema.

Come uscire dalla propria zona di comfort per arrivare alla comunità? Come le associazioni LGBTQIA+ e le associazioni di famiglie che affrontano ogni giorno una società monolite, è arrivata alla conclusione che davvero il dialogo si può tradurre in cambiamento.

Incontra così insegnanti, operatori del settore adozione, psicologi, giornalisti e imprenditori per parlare di linguaggio inclusivo e rispetto delle diversità (per informazioni redazione@italiaadozioni.com).

Uno strumento di base sono i due libri Cara adozione e Cara adozione 2 perché è solo attraverso le esperienze umane di altri che ci riconosciamo e ci rimoduliamo.

Avvalorano questa tesi i partecipanti del Master 2024 in Intercultural Competence and Management del Centro Studi Interculturali-UniVR. In particolare, riporto lo stralcio di una tesina: “Questo libro ti parlerà; ti costringerà ad ascoltarti e ripensarti. Due cose molto difficili da fare. (…) Queste esperienze da me e da te così distanti, in realtà parlano ad ognuno di noi”.

Roberta Cellore

  • Roberta Cellore è la curatrice dei libri Cara Adozione (2016) e Cara Adozione 2 (2022) editi da ItaliaAdozioni. Puoi trovare i libri sul sito di ITALIAADOZIONI

(Foto di copertina di Alessandro Alle da Pixabay)

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