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Perché la comunicazione fallisce

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Il buio era sceso da poco, nel freddo febbraio del 2005. Mi trovavo in piedi sotto il portico di Villa Chigi Farnese, villa cinquecentesca sulle colline toscane.

Aspettavo che il taxi, in arrivo da Siena, mi riportasse al mio albergo, che si trovava vicino al centro della città. A poche centinaia di passi da Piazza del Campo.

Ero da solo. Le mie compagne e i miei compagni del Master universitario in Comunicazione Pubblica avevano preso le loro auto ed erano andati via: chi verso Grosseto, chi verso Siena, chi arrivava da Firenze piuttosto che da Livorno.

Io, veronese, non giravo in auto. Preferivo i mezzi pubblici. Ieri, come oggi.

Era venerdì pomeriggio. Ero giunto a Siena la sera prima, via treno su Firenze e poi da qui alla città del Palio in autobus.

Dal portico scuro di Villa Chigi Farnese, guardavo la campagna della provincia di Siena, chiedendomi cosa facesse la gente nelle case lontane di campagna. Quelle case che intravedevo nel tremolare delle luci fioche di rari lampioni.

“Starà iniziando a cenare, tra salumi e vino Chianti, quella gente”, mi dissi, abbandonandomi allo stereotipo dei toscani tutti salame e rosso Chianti.

Fui sorpreso quando una voce di giovane donna mi interpellò, uscendo sul cortile davanti al portico: “Vuoi un passaggio a Siena?”.

Non riuscivo a capire – data la mia miopia e la scarsa illuminazione – chi mi avesse parlato. Lei dovette capire e si fece avanti. Era una ragazza mora, sui 25 anni, non alta, decisamente carina.

“Se vuoi ti porto in macchina al centro di Siena. Io vado in quella direzione”, mi spiegò, osservando il mio abbigliamento da addetto stampa: cravatta, camicia, maglione e cappotto blu notte. 

Le sorrisi: “Grazie. Ma ho chiamato il taxi. Sta arrivando dalla città”.

Lei ricambiò il sorriso. “Allora ti do un passaggio domani”. Si girò, allungò il passo, salì su una Renault nera. E se ne andò, inghiottita dalla notte e dalla strada collinare.

Non so perché, ancora non riesco a darmi una risposta, ma quelle sue parole, i suoi gesti, la sua offerta di accompagnarmi a Siena in auto, ebbero un effetto su di me che non mi aspettavo.

Sentii le lacrime scendermi calde sulle guance. Un poco mi vergognai. Noi uomini non siamo usi a piangere. 

Mi rassicurò il fatto che ero al buio. Nessuno mi poteva vedere. Tutti erano andati via, anche il direttore del corso e le tutor. 

Feci appena in tempo ad asciugarmi le lacrime, che il mio taxi bianco mi apparve davanti. Come se fosse giunto da un’altra dimensione.

Le luci dei fari della macchina illuminarono il portico, alla ricerca del passeggero che l’aveva chiamato. Feci un cenno. Mi avvicinai. E salii.

L’atto generoso verso l’indifferenza

Ripenso a quel gelido febbraio senese, a quella sera, ogni volta che la comunicazione autentica fallisce.

Quando mi prende lo sconforto nel vedere che non ci si capisce, che non ci si vuole capire tra persone, rivado a quella sera. 

Rivado a quella sconosciuta mia compagna di Master che, senza conoscermi, senza sapere chi fossi, mi offrì un passaggio in auto.

Nessuno l’ha poi più fatto. C’erano compagne e compagni di corso che abitavano a Siena, in quel Master. Tuttavia, nessuno di loro si è mai sognato di offrirci – a me e tre compagne di studi con cui ho fatto amicizia – di accompagnarci in città.

La giovane donna di quella sera poi fu di parola. Il giorno dopo, mentre si era a lezione, si voltò verso di me. E mi disse: “Stasera, se vuoi, ti do un passaggio”. E alla sera ci portò infatti, tre altre compagne di studi e me, al centro di Siena.

Più volte mi sono chiesto: cos’ha spinto, quella giovane donna, ad essere generosa verso di me, prima, e poi verso il nostro gruppo di allieve e allievi che venivano da fuori della Toscana? Perché le altre compagne senesi, pur sapendo che eravamo a piedi, non ci hanno offerto un passaggio in auto?

Ho pensato a una svista, da parte di chi non ci aveva offerto aiuto. Ho pensato al fatto che ciascuno ha fretta e porta sulle proprie spalle i problemi suoi.

Ho pensato che ognuno di noi può covare nell’anima un proprio dramma, per cui offrire un piccolo gesto di generosità a qualcun altro è l’ultimo dei suoi pensieri.

Io ti frego. Tu mi freghi. E si perde

Ho pensato a tante cose. Poi la risposta mi è arrivata un sabato di lezione sulla gestione dei conflitti, proprio là, al Master dell’Università di Siena.

Eravamo divisi in due squadre, in due stanze separate di Villa Chigi Farnese.

Le domande, lo si capiva subito, erano domande trabocchetto: dovevi scegliere tra il tuo interesse di gruppo e l’atto generoso e di fiducia verso il gruppo rivale.

Ci fu una domanda che risolse il gioco. C’erano due opzioni: scegliere l’ostilità verso l’altro gruppo e guardare al proprio tornaconto, temendo una fregatura dall’altra stanza; oppure dare fiducia, rischiando che gli altri fottessero noi.

Io non avevo dubbi: “Diamo fiducia!”, dissi. Purtroppo ero in minoranza. Una compagna di corso, che lavorava all’Inps, antipatica come pochi (e dallo scarso profitto, a fine Master), prevalse. “Fottiamoli noi!”, era la sua scelta.

Scegliemmo, a maggioranza, di fottere l’altro gruppo. Con il timore che gli altri fregassero noi. 

Risultato? Perdemmo entrambi. Tutti e due i gruppi nella polvere.

Mors tua, vita mea. Il problema è che poi si muore assieme.

Non si può non comunicare

La prima cosa che ho insegnato alle mie studentesse e studenti – dall’anno accademico 2003-2004 a oggi – è il famoso detto Non si può non comunicare.

È il primo assioma della Scuola di Palo Alto, nota soprattutto per il nome di uno dei suoi leader, Paul Watzlawick e per il libro Pragmatica della comunicazione umana.

Il comportamento è comunicazione, perché ogni comportamento ci dice comunque qualcosa. Non è peraltro possibile avere un non-comportamento. Quindi, non è possibile avere una non-comunicazione.

Siamo condannati a comunicare, insomma. Che lo si voglia o meno.

Anche quando stai in silenzio, immobile come una statua, con gli occhi assenti… anche allora comunichi.

Nei momenti amari della vita quotidiana, quando senti che l’altra persona non ti capisce, che tu non capisci l’altra persona, che sei in universi paralleli… in quei momenti penso a quanto siamo incapaci di comunicazione autentica.

Abbiamo da sempre uno strumento nelle nostre mani – il comunicare – e nessuno ci ha insegnato a maneggiarlo con cura. A trarne i migliori frutti.

Penso a un passato direttore del giornale L’Arena, Giuseppe Brugnoli, che a metà Anni Ottanta mi riceveva nel suo ufficio a mezzanotte. L’ora delle streghe.

Penso alle umiliazioni che mi ha inflitto, lui certo un grande giornalista ma assai piccolo come persona. “Cosa lo portava, lui uomo di quasi 60 anni”, mi chiedo talvolta, “a mettere in imbarazzo un giovane di vent’anni, educato, riservato, sgobbone, che voleva fare giornalismo?”.

Sono riuscito a sorprenderlo, il direttore Brugnoli, quando sono andato in pensione anticipata, nel 2016. A Natale del 2015, a pochi giorni dal ritiro, l’ho chiamato a casa. E l’ho ringraziato.

Quel direttore mi aveva fatto penare per anni, all’ora delle streghe, sottoponendomi a prove dialettiche, mettendomi alle corde, sfogando le sue frustrazioni. Poi, però, mi aveva offerto il lavoro quando ne avevo bisogno. E grazie a lui ero entrato al giornale. Avevo 36 anni.

Perché tutto quello spreco di energie? mi domando. Perché non cercare il dialogo, l’incontro, la comprensione? Perché barare sulla comunicazione, anziché cercare una comunicazione autentica?

La scelta di lei di non amarmi

Potrei dire la stessa cosa di una ragazza di cui mi innamorai in età giovanile. Le piacevo, ne ero certo. So quando piaccio a una persona; e so quando non si batte chiodo.

Le piacevo parecchio, eppure si ostinava a ignorarmi. 

Tempo dopo mi spiegò la sua scelta: non voleva soffrire, non voleva lasciar crescere il sentimento che provava per me, non voleva che ci incontrassimo.

Non ha avuto una vita felice, quella ragazza, che oggi ha superato i sessant’anni. E questo mi rende molto triste.

Quel suo rifiuto, soprattutto, mi fa chiedere: perché scegliamo la soluzione infelice dell’incomunicabilità? Perché non saltiamo le barriere? Perché non ci battiamo contro il fallimento della comunicazione?

Il mio professore di Italiano e Latino al liceo – a cui debbo l’idea di farmi fare il giornalista – direbbe che “le domande esistenziali non hanno risposta”.

Lui era (ed ancora) un uomo erudito. Peccato non avesse, né ieri né oggi, quella passione per la comunicazione autentica che è la sola strada per uscire dal pantano dell’incomprensione.

Maurizio F. Corte
* Se mi vuoi scrivere, mi trovi qui: maurizio@praticodinessuno.it

Canzone delle domande consuete. Francesco Guccini

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