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Come sono diventato giornalista. Viaggio in una professione /1

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Se son d’ umore nero allora scrivo
frugando dentro alle nostre miserie
Di solito ho da far cose più serie,
costruir su macerie o mantenermi vivo.

Questi noti versi dell’Avvelenata di Francesco Guccini mi sarà girata mille volte nella testa.

Ma prima ancora di questi versi, è proprio l’attacco della canzone che mi è risuonato.

Ma s’io avessi previsto tutto questo,
dati causa e pretesto, le attuali conclusioniCredete che per questi quattro soldi,
questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni.

Nel mio caso, al posto dello scriver canzoni ho sempre messo “fare il giornalista”.

Perché fare il giornalista mi è costato parecchio, quanto a tensioni, delusioni, ansia. E stress a nastro.

Voglio così raccontare la mia storia di ingresso ed esperienza – come giornalista professionista –  in una professione che è certo bellissima. Che è fondamentale in una democrazia. E che tutti coloro che fanno comunicazione e marketing dovrebbero imparare.

 

L’avvio dell’esperienza come giornalista

“O facevo il giornalista, oppure mi sparavo”. Così mi diceva Augusto Caneva, nell’estate del 1978, quando lavoravo in una radio libera, come allora si chiamavano le radio private.

La radio aveva come nome Radio Stereo 2000. Era stata messa in piedi dal figlio di un titolare di pizzeria, a Verona. Augusto Caneva ne era il direttore responsabile e – nonostante la sua evidente balbuzie – ne era la voce leader.

Caneva era stato un grande cronista di cronaca nera, a Verona, negli Anni Sessanta e inizi Anni Settanta. Girava con una piccola pistola attaccata alla cintura, perché l’avevano minacciato alcuni ceffi della criminalità organizzata.

In quel periodo, Augusto Caneva – giornalista professionista originario della Toscana – lavorava al Giornale Nuovo, di Indro Montanelli.

L’avevo conosciuto, il Caneva, perché – guidando una Ford – si era rivolto a mio padre Walter, che aveva autofficina e faceva il servizio di assistenza alle automobili di quella marca americana.

Io avevo cominciato a scrivere pochi mesi prima di quell’estate. Il 19 febbraio del 1978 era uscito il mio primo articolo sul quotidiano L’Arena di Verona, che sarebbe diventato 17 anni dopo il mio posto di lavoro.

Nel 1978 avevo 21 anni. Studiavo Filosofia a Padova. La Filosofia, come la Letteratura Italiana del resto, era stata (ed è ancora) il mio grande amore.

Al liceo scientifico Girolamo Fracastoro, di Verona, ero il migliore in Italiano e in Filosofia, nonostante venissi da una famiglia modesta (papà meccanico, mamma casalinga e poi donna di servizio e poi impiegata di papà). E nonostante fossi dialettofono.

Il professore di Italiano e Latino aveva detto a mia madre che scrivevo con stile giornalistico. E a mia madre Maria non pareva neppure vero di poter avere in casa un giornalista.

All’Università di Padova, il mio percorso di studio era eccellente per i voti (tutti 30/30 in Filosofia), ma andavo a rilento.

L’idea di chiudermi in una torre a filosofeggiare, lontano dalla realtà, mi andava stretta. Avevo voglia di sporcarmi le mani con la vita vera, di raccontare la provincia in cui vivevo (Verona), di uscire tra la gente.

Proprio una riflessione del docente di Storia della Filosofia Antica mi aveva convinto a mettere in secondo piano l’università. E a dedicarmi al giornalismo.

Attraverso un amico di famiglia, fui presentato al vice capocronaca de L’Arena, Silvo Bacciga. Lui mi propose, essendo a digiuno di giornalismo, di collaborare con le pagine provinciali.

Divenni così il corrispondente da Arbizzano – frazione del comune di Negrar di Valpolicella – e il 19 febbraio 1978 esordii con un pezzo sull’istituzione del consiglio pastorale.

Ricordo come fosse adesso l’avvertimento di Silvo Bacciga: “Siamo un giornale che viene letto anche dalle donne di servizio. Scrivi in modo semplice e comprensibile”.

 

Come scrivere in modo semplice

“Scrivi in modo semplice e comprensibile”, mi aveva detto il vicecapo della Cronaca cittadina de L’Arena.

Già. Ma come si scrive in modo semplice e comprensibile?

La base di partenza – dalla mia esperienza – è stata quella di leggere i giornali.

L’ho ripetuto sempre alle studentesse e agli studenti che hanno frequentato la mie lezioni di Giornalismo Interculturale e Multimedialità, all’Università di Verona: per poter scrivere bene, occorre leggere molto.

Voler scrivere bene – che sia giornalisti, scrittori o content creator – è come voler comporre musica: chi mai può pensare di farlo senza suonare uno strumento, oltre ad applicarsi alla teoria?

Quando iniziai la professione di giornalista, leggevo almeno tre quotidiani al giorno. In occasione di alcuni avvenimenti, ne compravo anche sei o sette.

Se non leggi i pezzi, non studi la struttura degli articoli, non fai attenzione al testo, non puoi diventare giornalista. Così come non puoi diventare scrittore se non leggi romanzi o saggi (nel caso della saggistica).

Detto questo, ci sono poi alcuni fondamentali precetti da osservare:

  • la struttura della frase deve essere semplice: soggetto, verbo, complemento oggetto. Punto.
  • gli aggettivi vanno ridotti al minimo. Là dove possibile, vanno utilizzate le immagini, il movimento, per rappresentare una scena (con personaggi e contesto) nella mente di chi legge
  • anche gli avverbi vanno dosati con il contagocce. Da abolire del tutto gli avverbi in -mente, perché – evidentemente – non servono a nulla e se li togli non perdi niente
  • da evitare come la peste l’avverbio “presso” (che vuol dire “vicino a” e non è indicativo di un luogo fisico preciso). Viene usato in modo scorretto (“presso l’aula A” vuol dire “vicino all’aula A”, quindi fuori). Ed è bruttissimo.
  • Frasi brevi ma anche parole brevi, perché più leggibili, specie a video
  • Poi c’è il famoso detto Show, Don’t Tell. Anziché dirmi che una scena è raccapricciante oppure un incidente è spaventoso, mostrami cosa è successo. Fammelo vedere, come al cinema

Per acquisire e migliorare lo stile di scrittura, consiglio sempre i libri, i corsi e il blog in lingua inglese di Henneke Duistermaat, che è stata la mia maestra di business blogging e di web copywriting.

Cosa c’entra il giornalismo con il copywriting? C’entra, perché il copywriting mira a far fare qualcosa alle persone, a convincerle. E lo fa nel modo più accattivante possibile.

C’è, quindi, qualcosa da imparare – a livello di stile, lessico e sintassi – dal copywriting.

Un’eccellente risorsa per la scrittura è anche il materiale che Sergio Lepri – mio insegnante di giornalismo al corso per l’esame da giornalista nel 1994 – ha pubblicato, gratis, sul sito web SergioLepri.

Un manuale utilissimo di giornalismo, in lingua inglese, Multimedia Journalism di Andy Bull. Lo puoi trovare, anche in formato digitale, su Amazon.

Scrivere in modo semplice e comprensibile è il primo passo. Poi occorre scrivere anche in modo accattivante.

Con il web, lettrici e lettori sono diventati infedeli. Vale per il giornalismo, vale per blogging, vale per il content marketing e per tutti i contenuti multimediali.

Se componiamo i nostri testi in modo coinvolgente, allora chi ci legge ci segue. Se siamo piatti, freddi e senza alcuna empatia verso lettrici e lettori, allora i nostri testi vanno dritti all’abbandono.

E chi legge passa ad altro.

Date alcune informazioni sulla scrittura, c’è da partire – nel parlare di tecnica giornalistica – da quella che ho definito (all’inizio della professione) la Rivoluzione Copernicana.

Scrivere un articolo è infatti assai diverso dallo scrivere un tema, una relazione oppure una lettera.

È tutta una questione di gerarchia. Ed è di gerarchia delle informazioni che parlo nel prossimo articolo di questa autobiografia professionale.

Intanto, prima di passare all’articolo successivo, iscriviti alla newsletter del Centro Studi Interculturali e di ProsMedia. È gratuita, niente spam e ti cancelli quando vuoi.

Hasta Siempre!

Maurizio F. Corte
(1 – continua)
* Se mi vuoi scrivere, mi trovi qui: maurizio@praticodinessuno.it

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