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Utero in affitto. Tre film per riflettere senza pregiudizi

Utero in affitto - Maternità - Adozione - Photo Marco Ceschi-cw32bXq5JFo-Unsplash

Quando si parla di utero in affitto capita spesso che le persone si esprimano per slogan.

Attraverso tre film che trattano questa tematica, cercherò qui di riflettere su alcuni messaggi e di offrire uno sguardo altro, aperto a ulteriori osservazioni costruttive.

Il focus è che ogni conquista individuale è incompiuta se staccata dalla crescita e maturità collettiva.

Questo sarà uno spazio per riflettere come singoli per crescere insieme, in uno scambio di vedute sui pro e contro. Non vi sono posizioni assolute, ma intrecci di pensieri.

I am Mother (Grant Sputore, Australia 2019)

Il primo è un film di fantascienza. Le immagini di apertura mostrano un macchinario, in un ambiente avveniristico e asettico, che seleziona un feto e lo fa gestire da un utero meccanico.

Tempo 24 ore e nasce una bella bambina senza dolori del parto, solo aprendo questa sfera da cui esce un liquido e una neonata in perfetta forma. La piccola viene affidata alle cure di un robot che chiama Madre.

Colpisce la voce suadente del robot, sempre equilibrato, mai uno scatto di impazienza, mai un atteggiamento di collera verso la bambina anche quando combina marachelle.

Una bambina che diventa una ragazza, sempre sola, unico contatto Madre. Si intende che a cadenze costanti la ragazza deve sostenere un esame a cui va dato un punteggio.

Di certo si sa districare molto bene sia con la meccanica, sia in materia sanitaria.  Ottimo lavoro quindi di Madre.

Qualche tempo dopo la ragazza sente una voce che si lamenta e vede dall’oblò una donna ferita. Dopo mille perplessità la fa entrare ma viene scoperta dal robot.

Questa donna, non certo amorevole come Madre, perché provata da una guerra e ben lontana dal luogo protetto in cui è vissuta la ragazza, la mette in guardia dal robot.

In verità sono stati i robot come lei che hanno distrutto il genere umano all’esterno. Se le andrà, distruggerà anche lei.

Osservando come si muove Madre, la ragazza capisce che lei stessa è una sorta di esperimento.

Prima erano nati altri bambini che sono stati eliminati perché non raggiungevano un quoziente intellettivo abbastanza alto da creare un genere umano che rasentasse la perfezione.

Solo grazie alla sua intelligenza la ragazza sarà premiata con un fratellino, nato nella stessa maniera in cui è nata lei e, si presume, sottoposto alla stessa vita controllata e uniformata.

Che cosa colpisce? Il ritorno dell’idea di una razza umana perfetta. Che l’estremo controllo emozionale di un robot avvizzisce di fronte alla complessità degli umori dell’essere umano. Di quanto sia bello e interessante essere donne e uomini imperfetti.

Questo film potrebbe, inoltre, andare a sostegno della libera scelta alla maternità delle donne.

Un utero di acciaio non pone problemi etici sullo sfruttameto o meno del corpo di alcune donne a favore di altre. Pero pone seri dubbi etici su altri fronti. 

I temi del film, che interessano in questa sede, sono: etica, maternità e evoluzione della specie.

Intelligenza Artificiale e Etica: il film esplora il rapporto tra gli esseri umani e l’intelligenza artificiale, ponendo domande su fiducia, controllo e moralità.

La “Madre” robotica è programmata per proteggere e crescere gli esseri umani, ma la sua interpretazione di questo compito solleva questioni etiche su cosa significhi veramente proteggere e guidare l’umanità.

La maternità e il concetto di genitore: il film riflette sul ruolo e sulla natura della maternità. La relazione tra la ragazza e la “Madre” robotica solleva domande su cosa significhi essere un genitore e se un’intelligenza artificiale possa mai sostituire una madre umana.

L’evoluzione della specie: un tema sottostante è l’evoluzione dell’umanità e il ruolo che la tecnologia potrebbe giocare in questo processo. Il film suggerisce che l’intelligenza artificiale potrebbe essere sia una guida sia una minaccia per il futuro dell’umanità.

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Una famiglia (Sebastiano Riso, Italia 2017)

Di solito non ho una grande simpatia per Micaela Ramazzotti ma dopo la sua interpretazione in La pazza gioia, dove è una mamma che ritrova suo figlio dato in adozione, e in questo film, Una famiglia, l’ho rivalutata.

Maria è una donna fragile in balìa di un compagno che la sobilla mentalmente e ogni tanto la mette incinta per vendere il bambino a coppie che non riescono ad averne.

In questo caso si tratta di una coppia gay, ma nell’immaginario potrebbe essere qualsiasi coppia etero o gay che non può avere figli.

Le gravidanze precedenti sono state un’interessante fonte di guadagno, ma questa volta il bambino nasce con una malformazione al cuore e i due committenti rendono il piccolo perché insano e privo dei requisiti richiesti.

Con vari espedienti Maria si riprende il bambino contro la volontà del partner padrone, segnando la sua uscita di scena da questo patto scellerato uomo – donna – gravidanza su commissione – soldi – controllo di qualità della merce bambino, mentre il film si chiude con un’altra ragazza giovane spiantata che resta incastrata nella tela del ragno.

L’uso della coppia gay può essere una pecca discriminatoria del film. Perché una coppia gay?

Le coppie etero non sono meno concentrate sui propri desideri di quelle gay, tanto che il ricorso all’utero in affitto, dai dati a disposizione, sembra praticato molto più dalle famiglie tradizionali.

In qualche passaggio c’è il rischio che questa vicenda, tratta da una storia vera e documentata con l’aiuto di una procuratrice, faccia passare che il tutto sarebbe risolvibile se venisse concessa l’adozione facile alle coppie, di qualsiasi orientamento esse siano.

Va chiarito che l’adozione non è per tutti e soprattutto non è una scelta di serie B.

La fecondazione artificiale fino al limite della sopportazione umana e le ricerche alternative illegali/legali per poter diventare genitori generano mostri, sempre e comunque, se da parte della coppia non vi è un percorso di maturazione e riconoscimento dei propri limiti, anche generativi.

Il desiderio di un adulto non è un diritto. Il diritto di un bambino ad avere una famiglia, invece, è prioritario su tutto. Stiamo parlando di un bambino che c’è già, senza essere stato commissionato. Nel nostro ordinamento la maternità surrogata è illegale.

L’utero in affitto di questo film torna con tutta la sua drammaticità: famiglie in affitto, bambini partoriti e non cresciuti, una donna usata nel suo corpo e nella sua mente, coercizzata da un compagno che la relega al rango di fattrice.

Anche fare all’amore è un puro atto meccanico per raggiungere l’obiettivo. E poi il bambino, ignaro dei giochi dei grandi, che viene al mondo e dal mondo viene subito rifiutato perché portatore di imperfezione.

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Il filo invisibile (Marco Simon Puccioni, Italia 2022)

Leone è figlio di una coppia gay. Gay non lesbica, quindi per forza di cose è il risultato di un “dono” che una loro amica americana ha fatto loro, accettando di portare in grembo un ovocita fecondato dallo sperma di uno dei due padri.

Per la sua particolare famiglia, Leone deve sopportare le angherie dei compagni di scuola che associano ai suoi genitori gay il suo orientamento sessuale.

Con sua sorpresa viene avvicinato da una compagna di classe, di cui è innamorato, ma poi scopre che l’intento è quello di facilitare la chimica tra Leone e il fratello di lei, omossessuale. Chiarito l’equivoco, il film è impregnato di sketch e luoghi comuni sulle coppie gay.

Per quanto attiene l’utero in affitto il momento clou è quando l’amica americana rivela il padre del ragazzo, di certo non uno dei due papà che sono stati esclusi dalla prova del Dna.

Il film è piacevole e brillante. Diverte, coivolge e fa pensare.

Tuttavia, in tutto questo susseguirsi di situazioni si ha l’impressione che la storia sia costruita da persone che conoscono sì il mondo gay, ma all’interno di una cerchia protetta, quella appunto degli artisti, dove questi modelli sono più accettati che nel resto della società.

La tranquillità con cui Leone affronta le discriminazioni in classe, con cui apprende la notizia della sua mamma di pancia sulla confusione delle sue origini, la tolleranza per i comportamenti dei due papà in piena crisi di coppia sono lontani, a parere di chi scrive, dalla vita reale.

Inoltre, la società si sta aprendo verso l’accettazione del diverso, com’è giusto che sia. 

Tuttavia, far passare con simpatia la pratica dell’utero in affitto dimentica le tante donne sfruttate nel mondo per accontentare le coppie danarose occidentali.

Per non parlare della sofferenza di una vita senza radici: ne sono testimoni le varie associazioni di figli adottati adulti che reclamano il diritto di conoscere la propria mamma anche quando questa li ha lasciati con la pratica legale del parto in anonimato.

Ricordiamo, dunque, che l’utero in affitto non è solo la gioia di un bambino per una coppia che non può avere figli, ma è anche (e spesso) lo sfruttamento del corpo delle donne e lo smarrimento di un figlio senza radici.    

Una riflessione sul tema dell’utero in affitto

Per affrontare il tema dell’utero in affitto, bisogna uscire dagli interessi personali per allargare lo sguardo sul sociale.

Quante sono le donne che sono disponibili ad affittare il loro utero per commissionare un bebè? Ma soprattutto chi sono queste donne?

Se la percentuale maggioritaria fosse rappresentata da donne ricche a servizio di donne sterili povere, sarebbe sorprendente.

Credo che su tale tema sia necessario mettersi in ascolto anche di chi è sfruttato in nome dei diritti di pochi.

Prima di tutto c’è il bambino. Anche prima della sua nascita. Un bambino che è una persona e non un pacco postale trasferibile.

Prima di esprimersi su argomenti etici ricordiamoci di:

  • Allontanarci dagli slogan politici o di fazione
  • Interrogarci quanto la nostra posizione sia razionale (mi sono documentato? Mi sono confrontato con persone che la pensano diversamente da me?) e non emotiva (ho amici che desiderano un figlio? Conosco coppie che sono ricorse all’eterologa? Hanno seguito la legge italiana o estera? La legge italiana lo ammette?)
  • Usiamo senso critico per smontare e decodificare le notizie dei media e dei social (chi parla? E’ una fonte affidabile? Fornisce una visione equilibrata della vicenda?)
  • Evitiamo arbitrarie polarizzazioni, esistono anche le zone di mediazione e incontro.
  • Rifuggiamo i facili consensi.

Quello che è importante, comunque e soprattutto, è il difendere in primis la tutela della dignità della donna e del bambino.

Roberta Cellore

  • Roberta Cellore è la curatrice dei libri Cara Adozione (2016) e Cara Adozione 2 (2022) editi da ItaliaAdozioni. Puoi trovare i libri sul sito di ITALIAADOZIONI

(Foto di copertina: Marco Ceschi, Unsplash)

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