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“Io ti ignoro”. Quando il silenzio ferisce

Disconferma - Comunicazione - Foto di Giulia Isacchi - tracks - da Pixabay-4608414_1280

Il silenzio è riflessione. Oppure è dolore. Il silenzio è incontro con il Divino. Oppure è un perdersi nella notte della solitudine.

L’esperienza del silenzio è, per questo, una delle esperienze più sconvolgenti del nostro esistere.

Ci sono tuttavia due diverse esperienze del silenzio.

C’è quella che ti mette in contatto con te stesso. Ed è l’esperienza del silenzio come “cura”, come la chiama Ricardo Arjona nella canzone El Amor Que Me Tenía.

C’è poi l’esperienza del silenzio come disconferma. Ovvero quell’esperienza che si traduce in una frase indecente: “Tu non esisti. Io ti ignoro”.

L’incontro con Lucia

La prima volta che vissi l’esperienza del silenzio come disconferma fu in seconda elementare, nel quartiere di Ponte Crencano, a Verona.

Ponte Crencano era, allora, un quartiere fatto di palazzine bianche a cinque piani e di giardinetti verdi senza ringhiere. Non avevamo grate alle finestre, nell’ingenuo entusiasmo degli Anni Sessanta.

C’era una bambina, alla scuola elementare di Ponte Crencano, che si chiamava Lucia. Aveva gli occhi scuri e i capelli neri, tipici di una giovane donna del Sud. Era nella classe della maestra Fattori, con me.

L’adoravo, Lucia. Mi perdevo nei suoi occhi scuri; non avevo il coraggio di avvicinarmi, quando durante la ricreazione c’era modo di giocare con le compagne di classe.

Su biglietti ritagliati dal quaderno a quadretti, di aritmetica, scrivevo “Abbasso le bambine, W Lucia”. Poi facevo cadere il biglietto sull’asfalto grigio, accanto a lei, nella strada che portava alla scuola prefabbricata.

Erano giorni di cieli azzurri, sole abbacinante e profumo di papaveri d’attorno, i giorni in cui gettavo a terra qui biglietti. O, almeno, io li ricordo così.

Lucia raccoglieva il biglietto. Lo leggeva. Si guardava in giro per capire chi avesse lanciato il biglietto accanto a lei. Ma non trovava nessuno. Io ero sparito.

La nostra era una forma di disconferma non dichiarata. Lei non sapeva di me. Io non sapevo cosa lei provasse… prima che in un giorno d’estate, molto tempo dopo, me lo dimostrasse con una rosa.

Ma questa del fiore è un’altra storia. Io ignoravo Lucia. Lucia ignorava me. E non si comunicava.

L’esperienza del silenzio

L’ultima volta che ti è accaduta l’esperienza del silenzio, sono certo che lo ricordi con una certa intensità.

Mi riferisco a cosa hai provato dopo aver mandato un certo messaggio alla persona a cui tieni; oppure a qualcuno per un lavoro che ti sta a cuore.

Risultato? Nessuna risposta. Silenzio totale.

Hai guardato, allora, su whatsApp, se c’era la doppia spunta sul messaggio.

La doppia spunta c’era. Il messaggio era arrivato. L’avrà mai letto? E perché non risponde? Almeno fosse un “no”, tutto questo avrebbe un senso. Sapresti cosa fare.

Aspetti qualche tempo. Conti i giorni. Conti le ore. Non conti i minuti perché temi di passare per una persona paranoica.

“Rimando il messaggio? Chiedo notizie? Scrivo una frase scherzosa, giusto per comunicare senza stressare?”.

Le domande ti girano per la testa, come i dubbi.

Il rifiuto e la disconferma. Tu mi rifiuti? Oppure mi ignori?

Le sconfitte mi hanno insegnato, in questa mia vita degli alti e bassi, che la comunicazione è un ponte delicato. È precario di sua natura.

È un ponte che collega le persone, un mezzo per condividere emozioni, pensieri e esperienze. È un’occasione per essere tristi; oppure per godere di rapidi momenti di felicità.

Tuttavia, come ogni strumento, la comunicazione può essere utilizzata in modo costruttivo. Oppure in modo distruttivo.

C’è tuttavia un’esperienza, nella comunicazione, che più di tutte mi turba. Direi che mi destabilizza. E che ho deciso, da sempre, di non usare mai. E se l’ho usata, poi mi sono dato del coglione.

È proprio l’esperienza della disconferma. È l’esperienza di quel silenzio che vuole dire: “Io ti ignoro. Tu non esisti. Tu non sei niente”.

Ne parla la Scuola di Palo Alto, il gruppo di ricercatori che ha rivoluzionato il modo di intendere la comunicazione.

“Quello che hai da dire non ha importanza, non ti sto ascoltando, non esisti”. Questo è la disconferma.

Ti ho mandato un messaggio via smartphone. Oppure ti ho scritto un’email. Oppure ti ho mandato un biglietto di auguri, via posta, alla vecchia maniera.

Tu non mi rispondi. Non accetti quanto ti dico, né lo rifiuti. Lo ignori. Mi ignori. Mi cancelli come persona. Mi condanni al silenzio. Al tuo silenzio.

Il silenzio di Lucia e i silenzi di chi ci ignora

Quando penso a Lucia, penso a come si comunicava negli Anni Sessanta. I favolosi Anni Sessanta. Quelli senza serie tv in streaming; e senza cellulari.

La comunicazione tra me e Lucia, tuttavia, aveva un suo senso.

Il mio silenzio imbarazzato non poteva turbarla, dato che non si attendeva che io comunicassi con lei.

Lucia notava solo qualche mio sguardo di bambino che si fermava sui suoi splendidi occhi di bambina dai colori mediterranei. Nulla più.

Neppure il suo silenzio, del resto, mi feriva. Non potevo aspettarmi un suo cenno, una sua parola, una sua dichiarazione d’amore.

Lucia non sapeva che ero innamorato di lei. Quindi, il suo ignorarmi aveva un suo senso.

Diversa è la situazione con una persona – la si ami o meno – con la quale, in un certo momento preciso, comprendiamo che qualcosa è cambiato.

Se qualcuno ti dice “non mi interessi più” o “non ti voglio più parlare”, la frase ti ferisce. Tuttavia, ha un suo senso.

Non è neppure da tragedia la scena dove qualcuno ci lancia accuse o si infila in un litigio accaldato dalla rabbia.

No, il momento esatto in cui tutto cambia è quando qualcuno, a cui teniamo, smette di rispondere.

Ecco, in quel momento il silenzio diventa disconferma. Non è un’assenza qualsiasi. È un’assenza che pesa, che taglia fuori, che comunica senza bisogno di parole.

Perché il silenzio, nella sua forma più potente, non è semplice mancanza di suoni. È una scelta, un messaggio preciso che dice: “Tu non vivi più nel mio orizzonte comunicativo. Tu puoi sparire dal mondo e il mondo può continuare a esistere”.

L’altalena e la comunicazione interrotta

La conversazione mi ricorda un’altalena.

Nell’altalena, due persone giocano assieme: uno spinge, l’altro riceve la spinta e la restituisce. Avanti e indietro, in un movimento ritmico che crea connessione.

Se l’equilibrio è buono, l’altalena funziona, e il dialogo diventa fluido, piacevole, naturale. Ma cosa succede quando uno dei due smette di spingere?

Se uno si ferma, l’altro rimane sospeso nel vuoto, con la sgradevole sensazione che ti dà l’essere lasciato a mezz’aria. Sei davvero nel mezzo del nulla. Né su, né giù, né in alto e neppure a terra.

Aspetta – ti viene da credere – forse puoi provare a dare un colpo in più per rimettere in moto il gioco. Niente. L’altro è fermo. L’altalena si blocca. Il dialogo si interrompe.

Questa è, ancora, la disconferma attraverso il silenzio.

Non è un rifiuto esplicito (che almeno riconosce la presenza dell’altro). È un’assenza totale di risposta. Non è “ti contesto”; è l’amara verità che tu “non esisti più nel mio gioco”.

Quando il silenzio pesa più di mille parole

Secondo la Scuola di Palo Alto, la comunicazione non è fatta solo di parole. Ogni gesto, ogni pausa, ogni mancata risposta è un messaggio.

Il silenzio è un comportamento. Il comportamento comunica. Quindi, ci dicono gli psichiatri di Palo Alto, è impossibile non comunicare.

Il silenzio, in particolare, ha un peso enorme perché crea un vuoto incolmabile. È la versione comunicativa dello “smettere di giocare”.

Se qualcuno mi insulta, mi può irritare, ma sta comunque riconoscendo la mia esistenza. Se mi critica, può certo dispiacermi, tuttavia mi sta attribuendo un ruolo nel suo mondo.

Se invece qualcuno smette di rispondere, se sparisce senza spiegazioni, mi sta dicendo che non sono più nemmeno degno di una reazione.

E questo, per la psiche umana, è devastante. Perché il nostro bisogno primario, più ancora dell’essere amati, è di essere riconosciuti.

L’ho provato molti, molti anni fa. Era il 1989 e quella giovane donna scelse di ignorarmi.

La cosa cosa incredibile è che – pochi anni dopo – mi dimostrò che in quell’anno assurdo della mia vita, il suo silenzio significava che si era innamorata di me. Ma che non voleva rischiare.

Quando poi decise il rischio… io ero rivolto in altra direzione.

Il silenzio ambivalente: l’altalena si muove da sola

Fin qui, le esperienze del silenzio che ho raccontato – disconferma o meno che fossero – avevano un loro significato, anche se non riuscivo a coglierne il senso.

Ci sono, invece, persone che non interrompono del tutto il gioco del comunicare, ma lo rendono imprevedibile.

Un giorno spingono l’altalena con entusiasmo, comunicando in modo affascinante. Il giorno dopo se ne vanno senza avvisare. Poi tornano, magari con un messaggio leggero, come se nulla fosse.

Accade nelle relazioni sentimentali; e accade spesso nelle relazioni di lavoro.

Con il tempo, ho imparato a gestire questo tipo di comunicazione. Si tratta di un comunicare assai sfidante.

Questo schema – appari e scompari, ci sei e non ci sei, vieni avanti e arretri – crea confusione, perché il silenzio non è più solo una disconferma: il silenzio diventa ambivalenza.

Il classico “ti vedo e non ti vedo”, “ti cerco e poi sparisco”. È una comunicazione instabile, dove l’altro rimane un poco sospeso e un poco a terra. E non comprende se deve aspettare; oppure se deve scendere dall’altalena per sempre.

Il problema? Chi resta sospeso finisce per diventare dipendente dal movimento incostante dell’altro.

Il silenzio intermittente, a questo punto, non è più solo un messaggio: diventa un mitra spianato, una pistola puntata al centro degli occhi, un modo per mantenere il controllo sulla relazione.

Come rispondo al silenzio che mi ignora?

Mi sono reso conto che quando qualcuno ti lascia sull’altalena – a dondolare da solo aspettando la spinta – hai due scelte.

La prima scelta è restare lì, sospeso, in attesa che torni a spingere. Ma questo ti mette in una posizione passiva, in balia di un ritmo che non decidi tu.

La seconda scelta è di scendere e smettere di aspettare. Puoi decidere tu che il gioco è finito, anche se non hai avuto una chiusura chiara.

La cosa più difficile da capire è che non hai bisogno di una spiegazione, per chiudere un dialogo che non esiste più.

Se qualcuno sceglie il silenzio come arma, tu puoi scegliere il silenzio come difesa. Ma con una differenza: il tuo silenzio è una decisione consapevole, non è una forma di attesa.

Scegliere il proprio ritmo nell’altalena

Il vero potere sta nel decidere quando fermare l’altalena da soli.

Ricordo quando, a vent’anni, all’interno di un gruppo di ragazze e ragazzi che frequentavo a Verona, nel quartiere periferico di Santa Lucia, mi imbattei in una giovane donna dal comportamento ambivalente.

Giovanna, così si chiamava, aveva qualche anno più di me. Si atteggiava a “first lady” della compagnia. Quando mi capitava di incrociarla, magari quando si andava a ballare o a fare una partita a biliardo, alternava l’ignorarmi con il prendermi in giro.

A volte non mi salutava e mi trattava come se non esistessi. Altre volte, si divertiva – se dicevo qualcosa chiacchierando in gruppo – a darmi del “ragazzino”.

Usciva con frasi come “hai sempre qualcosa da dire, tu ragazzino”. “Ehi, ragazzino, va bene che studi Filosofia a Padova, ma puoi fare a meno di citare Aristotele”.

Un giorno mi venne spontaneo ribattere. Le parole mi uscirono di getto, senza pensarci: “Giovanna, io credo che tu ti diverta a prendermi in giro, perché di fatto hai paura degli uomini e delle loro idee”.

Giovanna rimase impietrita. Si chiuse nel silenzio e non mi rivolse più la parola.

Giovanna, la “first lady” che mi trattava come un bambino scemo, era passata alla disconferma. Tuttavia, almeno stavolta, il suo silenzio aveva un significato e avevo messo fine alla sua ambivalenza nel comunicare con me.

Io reagii all’ambivalenza di Giovanna rompendo il gioco, anche se mi spiace ancora oggi di averla in qualche modo turbata.

Ci sono altri modi di uscire dal gioco dell’altalena.

Quando smetti di aspettare che qualcuno torni a giocare, smetti anche di subire il suo silenzio. La disconferma è dolorosa, l’alternanza silenzio e parola è dolorosa, l’incertezza è dolorosa, ma solo se accetti di restare sospeso.

Se scegli di scendere, invece, disconferma e ambivalenza diventano solo ombre che scivolano via nella notte d’inverno.

E a quel punto, puoi sempre scegliere di trovare qualcuno con cui l’altalena funzioni davvero.

Comprendere come funziona la disconferma, attraverso il silenzio, e come funziona l’ambivalemza ci permette di diventare comunicatori più consapevoli e attenti.

Ci mette in grado di costruire relazioni basate sul rispetto reciproco; e sulla valorizzazione delle differenze.

La rosa di Lucia sotto il sole di luglio

Ogni volta che mi capita di ignorare qualcuno, senza volerlo perché detesto la disconferma, mi ricordo che ogni persona ha il diritto di essere ascoltata e compresa.

Ricordo a me stesso che la comunicazione è uno strumento potente per creare connessioni significative.

Ogni volta che noto segni di ambivalenza, rivado a quando lei – Lucia – uscì dalla sua ambivalenza, costruita tra silenzi stavolta consapevoli e sguardi che miravano ai miei occhi.

In un caldo pomeriggio di luglio, quando avevo ormai 11 anni. Era il giugno del 1968. Avevano appena sparato a Bob Kennedy ed eravamo in ansia: sarebbe sopravvissuto? Oppure sarebbe morto.

Stavo giocando a pallone, in un giardinetto di Ponte Crencano, con gli amici.

Sara, l’amica di Lucia, arrivò in bicicletta. Smontò dai pedali. Mi puntò diritto mentre ero fermo per battere un calcio d’angolo.

Sara mi guardò negli occhi, con i suoi lunghi capelli castano chiaro sciolti sulle spalle di bambina, e allungò una rosa verso di me: “Questo, Maurizio, è da parte di Lucia”. Si voltò, riprese la bici e se ne andò.

Quella è stata l’unica rosa, l’unico fiore e uno dei pochissimi doni che una donna mi abbia mai dato. La disconferma era finita all’inferno. L’ambivalenza si era sciolta nel sole di luglio. E io ero felice.

Maurizio F. Corte
* Se mi vuoi scrivere, mi trovi qui: maurizio@praticodinessuno.it

* Sulla disconferma, secondo la Scuola di Palo Alto, puoi leggere la scheda informativa

EL AMOR QUE ME TENÌA. Ricardo Arjona 

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